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La pastorizia protegge i terreni dalla desertificazione
A dirlo è uno studio di Unep e Iucn, che sottolinea le potenzialità dei pascoli nella mitigazione dei cambiamenti climatici
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19/03/2015

La pastorizia praticata in grandi spazi aperti, su pascoli spontanei, combatte la desertificazione e aumenta la capacità del terreno di assorbire CO2. Mentre gli allevamenti intensivi di bestiame sono sempre più sotto accusa – uno studio condotto l’estate scorsa dall’università di Siena ha stabilito che essi sono responsabili da soli del 10% delle emissioni di gas serra globali – di recente il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (Unep) ha riabilitato la pastorizia. Secondo il report “Pastorizia e green economy-un nesso naturale?”, presentato alla conferenza Onu contro la desertificazione di Cancun chiusasi lo scorso 12 marzo e realizzato in collaborazione con l'organizzazione non profit Iucn, infatti, in ecosistemi come praterie nel deserto, foreste e steppe, questa attività “mantiene la fertilità del terreno e il carbonio nel suolo e contribuisce alla regolazione idrica e alla conservazione della biodiversità. La pastorizia garantisce anche altri effetti positivi, come prodotti alimentari di alto valore”, spiegano dall’Unep.

Oggi la pastorizia è praticata nel mondo da mezzo miliardo di persone. I pascoli coprono cinque milioni di ettari e assorbono dai 200 ai 500 chili di CO2 per ettaro all’anno, “giocando un ruolo di primo piano nella mitigazione dei cambiamenti climatici. Fino al 70% del carbonio contenuto nel suolo verrebbe liberato attraverso la conversione del terreno ad usi agricoli”, continuano dall’Unep. Il pascolo “promuove la biodiversità e la produzione di biomassa necessaria per mantenere queste riserve di carbonio” nel terreno, dove le molecole sono stoccate naturalmente. Secondo il Programma per l’ambiente delle Nazioni unite, una migliore gestione dei pascoli potrebbe addirittura portare al sequestro di 409 milioni di tonnellate di CO2, circa il 10% delle emissioni di carbonio di origine antropica.

Se nei Paesi industrializzati si sta almeno in parte comprendendo il valore ambientale di questa attività, in molte aree in via di sviluppo alla pastorizia non vengono destinati investimenti e risorse. “Politiche di sviluppo inappropriate hanno spesso indebolito le proprietà terriere e le forme di gestione delle risorse naturali, ristretto la possibilità di muoversi del bestiame, cosa che invece fa sì che il sistema funzioni, negato ai pastori i servizi di base necessari”, denunciano Unep e Iucn nello studio. Tutto questo mentre è stato dimostrato che la pastorizia “è dalle 2 alle 10 volte più produttiva per unità di superficie rispetto ad alternative capital-intensive”.

Dalle Nazioni Unite arriva l’invito a investire per rafforzare la pastorizia, considerando che essa, ha spiegato il direttore esecutivo dell’Unep Achim Steiner, “è molto più in accordo con gli obiettivi della green economy di tanti nostri metodi moderni di allevare gli animali”. Tra le azioni necessarie ci sono la connessione dei pastori con il mercato, la valorizzazione delle nicchie di mercato che si stanno creando per prodotti sostenibili, come quelli provenienti dalla pastorizia non intensiva, e il rafforzamento dei diritti di proprietà degli allevatori sulle terre.

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